Mal di TORX

November, 2011

PIETRO

TRABUCCHI

Psicologo

Analisi semi-seria di un disturbo ormai endemico

Il mio amico Mau mi chiede di scrivere qualcosa in merito al “mal di Tor”. Di cosa si tratta?

Di quel fenomeno per cui chi ha vissuto un’avventura come il Tor des Geants e provato emozioni straordinarie, trova difficile ritornare alla vita di tutti i giorni.

La vita ordinaria risulta grigia e deludente; si ha fame di emozioni come un bulimico messo a dieta; il rimpianto e la nostalgia saturano l’esistenza.

E così ogni sfortunato che ci incontra deve sorbirsi un monologo simile a quello del replicante nella scena finale di Blade Runner: “Ho visto cose che voi umani.”

Sembra che dopo la gara ci sia stata una vera e propria epidemia di Mal di Tor. Nel forum di spirito trail sono apparsi diversi interventi sull’argomento. Alcuni erano decisamente divertenti. Come vedete anch’io la sto prendendo abbastanza sul ridere.

Tuttavia se ci si ride sopra tanto è segno che – sotto sotto – qualcosa di vero c’è. Del resto, nulla di nuovo sotto il sole.


Le imprese eroiche disadattano al quotidiano


Lo si sa perlomeno dai tempi di Ulisse: che, tornato dopo anni di peripezie da Penelope – dopo qualche tempo non trovò di meglio che ripartire per l’ultima avventura oltre le Colonne d’Ercole. In tempi decisamente più recenti ho potuto osservare una dinamica simile in quella definirei “sindrome da spedizione” degli alpinisti.

Fame di stimoli e disadattamento sociale: ecco i due ingredienti base nel “disagio da ritorno”.

Il tutto mi ha fatto pensare alla sindrome di Stendhal. Vi ricordate? E’ quel disturbo che colpisce i visitatori delle grandi città d’arte, che in un certo senso si sentono male di fronte ai capolavori artistici.

Troppa bellezza. Così tanta bellezza, sommata allo spaesamento del viaggio che il soggetto perde un po’ il senso di identità.


Che rapporto c’è tra la sindrome di Stendhal e il “mal di Tor”?

Credo stia nel fatto che anche il “mal di Tor” ha a che vedere con un’indigestione di bellezza, con le emozioni estetiche (ma forse dovrei dire estatiche). Qui, molto più che in gare più brevi, il paesaggio cessa di essere immagine televisiva, desktop del pc, idea astratta.

C’è un susseguirsi di valli e di cime. E le montagne, i panorami e i cieli si disvelano per quello che sono: immensità reali e tangibili, non più icone virtuali.

Nei Gigatrail hai – anzi, il tuo cervello ha – tutto il tempo (percettivamente parlando) di rendersene conto: perché anche il tempo è dilatato, non è più lo stesso delle gare più brevi dove la vista è totalizzata dall’asse occhio- cronometro.


Ecco che allora il senso di identità vacilla. Perché l’ego si accuccia come un cane spaventato quando finalmente ci ricordiamo di essere nulla di fronte alle forze del cosmo


. La nostra compiaciuta identità sociale, o lavorativa, o sportiva viene annientata dal confronto con queste forze.


È qui che subentra lo spaesamento. Ci rendiamo conto di essere solo un grumo di impermanenza di passaggio in qualcosa di ben più vasto. È vero: la natura selvaggia produce emozioni forti, poco addomesticabili.

Non c’è zapping che tenga, non si può cambiare canale di fronte al sublime. Sublime è ciò che produce al tempo stesso senso di meraviglia per la grandezza della Natura e spavento per la propria finitezza (E. Kant, 1790).

Non incontriamo spesso il sublime nella nostra società, non possiamo comprarlo, non possiamo virtualizzarlo. Normale che ci riempia di nostalgia.


Il contatto con il sublime sfronderà il nostro ego ipertrofico, gonfiato di nulla, bastonando il nostro abusivo sentirci “centro-dell’universo”. E non preoccupatevi anche se fa male: questa è tutta salute.


La nostra identità si rifonderà su basi più solide: quelle della sfida con i propri limiti e con la propria finitezza, fuori da una società che invece tende ad iper-proteggere dal confronto con la realtà.


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